SUBITO DOPO L'8 SETTEMBRE    


8 SETTEMBRE 1943: L’”INGANNO RECIPROCO”. COME LA MARINA FU TRADITA
Elio Lodolini
 
 
 1) 8 settembre: la flotta italiana pronta all'ultima battaglia
    “La mattina del 7 settembre (1943) -scrisse l'ammiraglio Raffaele de Courten, ministro della Marina nel governo Badoglio e Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, in una relazione datata 12 febbraio 1944- ebbi con l'ammiraglio Bergamini, comandante in capo della Squadra da battaglia, giunto a Roma per la riunione da me convocata, un colloquio sullo spirito della Flotta. Ebbi da lui piena ed esplicita assicurazione che la flotta era pronta ad uscire per combattere nelle acque del Tirreno meridionale la sua ultima battaglia. Mi disse che comandanti ed ufficiali erano perfettamente consci della realtà cui sarebbero andati incontro, ma che in tutti era fermissima la decisione di combattere fino all'estremo delle possibilità. Gli equipaggi erano pieni di fede e di entusiasmo. L'addestramento aveva fatto negli ultimi tempi buoni progressi. Gli accordi presi con l'Aeronautica italiana e con quella tedesca e le esperienze compiute davano buon affidamento di poter finalmente contare sopra una discreta cooperazione aeronavale. Egli confermava che, intervenendo ad operazione di sbarco iniziata (1) e traendo profitto dall’inevitabile crisi di quella delicata fase, sarebbe stato possibile infliggere al nemico gravi danni. Ricordo questo colloquio con commozione perché dalle parole di quell’uomo vissuto sempre sulle navi e per le navi emanava senza alcuna iattanza la tranquilla sicurezza di poter chiedere al potente organismo nelle sue mani lo sforzo estremo e il sacrificio anche totale”(2).
    L'armistizio era stato firmato quattro giorni prima, il 3 settembre 1943, ma la Squadra italiana da battaglia, del tutto all'oscuro di quanto veniva operato alle spalle dei soldati italiani, era pronta al combattimento ed all’estremo sacrificio.
    È da notare che la relazione dell’ammiraglio de Courten reca la data del 12 febbraio 1944, cioè di un periodo cruciale in cui l’Italia era divisa in due e de Courten ricopriva in quello che fu detto il “Regno del Sud” la carica di ministro della Marina del governo Badoglio. La relazione nella quale egli sottolineava lo spirito battagliero, l’elevato morale e l'efficienza bellica della nostra flotta, pronta ad immolarsi per contrastare il nemico angloamericano, costituisce quindi un documento di grande obiettività ed anche un atto di coraggio, in quanto gli altri protagonisti di quel periodo, schieratisi dalla parte del nemico ed anzi corresponsabili del capovolgimento di fronte, hanno sempre tentato di giustificare il loro operato con affermazioni di segno opposto, quali l'inadeguatezza delle forze italiane, la scarsità di mezzi, la mancanza di spirito combattivo dei nostri soldati.
    Non può tuttavia escludersi che egli abbia sottolineato alcuni avvenimenti piuttosto che altri, atteso il momento in cui la relazione è stata redatta. Anche così, tuttavia, ed a maggior ragione, la relazione de Courten costituisce un valido documento sullo spirito combattivo della Marina italiana e sullo stato d'animo di comandanti ed equipaggi.
    Ancora dalla relazione de Courten: la mattina dell'8 settembre, “essendo giunta conferma dell’iniziato sbarco degli anglo-americani nel Golfo di Salerno, dopo aver preso contatto con il Capo di Stato Maggiore Generale, ordinai alla Squadra da battaglia, a La Spezia, di accendere, tenendosi pronta a muovere dalle 14, per il previsto intervento offensivo nella zona di sbarco la mattina del giorno successivo (9 settembre 1943) e disposi perché fossero perfezionati e messi in atto gli accordi presi con le aeronautiche italiana e tedesca per la cooperazione aerea”(3).
 
    2) Trattative e vicende dell'armistizio
    Abbiamo tratto le citazioni che precedono, così come quelle, che riportiamo più avanti, di altri documenti (taluni dei quali già da tempo noti ed altri, invece, assai meno noti, per lo meno in Italia) da un recente volume di Elena Aga Rossi, dal titolo “L’inganno reciproco” ed il sottotitolo “L'armistizio tra l’Italia e gli angloamericani dell'8 settembre 1943”, edito da “Il Mulino” con il patrocinio dell'Amministrazione centrale degli Archivi di Stato italiani (Ministero per i Beni culturali e ambientali)(4).
    Con l'espressione “inganno reciproco” l’autrice allude ai negoziati fra rappresentanti italiani e angloamericani (i primi contatti, come è noto, risalivano ai primi di agosto). A Lisbona, il 19 agosto, l’inviato italiano, gen. Castellano “sostenne che il suo governo voleva un rovesciamento dell’alleanza e un'attiva collaborazione dell’esercito italiano alla lotta contro i tedeschi dopo lo sbarco alleato”, mentre, secondo la Aga Rossi, il governo Badoglio non avrebbe effettivamente avuto intenzione di partecipare alla guerra contro la Germania: tesi, questa, che non ci sentiremmo di condividere.
    Gli angloamericani, dal canto loro, “insistettero per una resa senza condizioni, presentandosi come una forza soverchiante, che non aveva alcuna necessità di aiuti esterni”(5), mentre in realtà le loro forze erano relativamente modeste, tanto che lo sbarco a Salerno rischiò di concludersi con un disastro, per la reazione delle truppe tedesche e -aggiungiamo- di reparti italiani che non avevano accettato l'armistizio e continuavano a combattere. Solo le artiglierie di grosso calibro delle navi britanniche impedirono che le truppe da sbarco fossero ributtate a mare.
    Sul piano politico, la posizione inglese nei confronti di un armistizio con l'Italia -ipotesi che era stata da tempo presa in considerazione da parte britannica- era, sin dal 20 novembre 1942 (memorandum del Gabinetto di guerra inglese, preparato da Eden), quella secondo cui “tra le due possibilità di una pace separata o di un collasso interno, seguito da una occupazione dei tedeschi, si preferiva la seconda”(6), cioè l'occupazione dell’Italia da parte dei tedeschi piuttosto che la semplice uscita dell'Italia dal conflitto: “Il Governo inglese intendeva imporre una pace punitiva, che impedisse a qualunque futuro Governo italiano di avanzare richieste riguardanti la propria integrità territoriale o il mantenimento delle colonie e eventualmente ritornare a minacciare la potenza inglese nel Mediterraneo”(7). Guerra senza quartiere contro l’Italia, quindi, e non soltanto contro il fascismo, come ripeteva invece , con insistenza l'abile propaganda nemica. Addirittura, da parte inglese “non vi era (...) alcuna pregiudiziale ideologica nei confronti di personalità del regime fascista, tanto che l’unico nome su cui il Governo inglese assunse una posizione possibilista fu quello di Grandi”(8).
    È superfluo ripetere in questa sede come l'annuncio dell'armistizio sia stato accolto con sentimenti contrastanti, e come molti siano stati coloro i quali lo sentirono come un'onta e continuarono a combattere, prima ancora che sul territorio non occupato dal nemico si costituisse la Repubblica Sociale Italiana; anche perché, come è ben noto, non si trattò di un “armistizio”, cioè della sospensione delle operazioni militari contro il nemico, ma di capovolgimento di fronte, cioè di passaggio allo stesso nemico, improvviso ed inatteso, dopo che il Governo Badoglio aveva solennemente riaffermato che l'Italia, mantenendo fede alla parola data, avrebbe continuato la guerra sino alla fine(9). E questa posizione, in evidente malafede, fu mantenuta sino all'ultimo, ancora dopo che l'armistizio era stato firmato e prima che esso fosse pubblicamente annunciato.
    D’altra parte, neppure il nemico stesso aveva chiesto il capovolgimento di fronte: anzi, proprio il Comandante in capo nemico, gen. Eisenhower, aveva escluso che si potesse chiedere agli italiani di schierarsi dalla parte degli angloamericani e contro i tedeschi, in quanto ciò avrebbe costituito per essi un disonore. Nel testo dell'armistizio breve, cioè quello firmato il 3 settembre 1943 e reso noto nel pomeriggio dell'8 settembre, “si prevedeva la resa italiana, ma non il passaggio dalla parte alleata, perché Eisenhower era convinto che non si poteva chiedere agli italiani una decisione che egli stesso considerava contraria al codice d'onore militare”(10). In un telegramma inviato al “Combined Chiefs of Staff, USA-GB” il 27 luglio 1943, Eisenhower affermava che gli italiani “considererebbero disonorevole cercare di rivolgersi contro i loro antichi alleati e costringere alla resa le formazione tedesche ora sul continente italiano”(11).
    Da rilevare, altresì, che soltanto l’“armistizio breve” fu reso noto l’8 settembre 1943, mentre il testo dell'“armistizio lungo” sottoscritto il 29 settembre successivo (ma l'obbligo di sottoscriverlo era già inserito in quello “breve”) fu tenuto segreto e reso noto soltanto molto tempo dopo la fine della guerra, nel novembre 1945 (12), tanto le clausole ne erano pesanti.
    Con quell'armistizio, il governo Badoglio, nato in forma anticostituzionale con il colpo di Stato del 25 luglio 1943 e pertanto sino ad allora “governo di fatto”, cessava di esistere anche come governo di fatto, avendo ceduto al nemico tutti i poteri. I territori italiani man mano occupati dagli angloamericani furono governati dall'AMGOT (governo Militare Alleato dei Territori Occupati), poi AMG.
    Ma di tutto questo abbiamo avuto occasione di scrivere in altra occasione e ci sembra inutile ripetere quanto già detto (13).
 
    3) Gli avvenimenti del 9 settembre 1943
    E torniamo alle vicende della Marina.
    Nel pomeriggio del 7 settembre il Capo di Stato Maggiore e ministro della Marina impartì verbalmente agli ammiragli comandanti in capo o comandanti autonomi di forze navali e di dipartimenti, in una riunione tenuta a Roma, una serie di ordini relativi esclusivamente alla reazione contro eventuali tentativi di colpi di mano da parte dell'alleato tedesco, senza fare alcun cenno ad un possibile armistizio. Fra quegli ordini era stabilito che le navi da guerra avrebbero dovuto trasferirsi: “quelle dell'Alto Tirreno, in Sardegna, Corsica, Elba; quelle del Basso Tirreno, in Sardegna; quelle di Taranto restano, a posto, ma tutte in mar Grande o, se ordinato, a Cattaro; quelle di Brindisi idem come sopra; quelle dell'Alto Adriatico a Sebenico o Cattaro (il Cesare sia rifornito anche del personale strettamente necessario a navigare)” (14): tutte; quindi, in porti italiani della penisola o delle isole italiane od in quelli delle città italiane della Dalmazia, allora presidiate anch'esse dalle forze armate italiane.
    Nel testo dell'armistizio sottoscritto il 3 settembre, era prescritto invece che le navi italiane si trasferissero “in quelle località che saranno designate dal Comandante in capo alleato”, e questa clausola era stata considerata particolarmente importante da parte degli angloamericani: a Lisbona - scrive la Aga Rossi - l’inviato italiano, gen. Castellano, “aveva cercato di eliminare dal testo dell’armistizio la condizione della consegna della flotta in porti sotto controllo alleato, sostenendo che la sua attuazione sarebbe stata troppo umiliante. La sua controproposta di far concentrare le unità in Sardegna fu però nettamente respinta. La richiesta italiana era stata poi ribadita nei successivi colloqui, ma non fu mai presa in considerazione”(15).
    De Courten era a conoscenza delle trattative dal 3 settembre (cioè dal giorno stesso della firma dell'armistizio) secondo la sua versione, dal 1° settembre secondo la versione di Badoglio e Ambrosio (16); in ogni caso, però, Badoglio, convocata una riunione dei tre ministri militari (Guerra, Marina, Aeronautica) nel pomeriggio del 3 settembre, non li informò che l'armistizio era stato già firmato, ma semplicemente che erano in corso trattative (17).
    Ambrosio, “con infondata sicurezza confidò a de Courten che la flotta avrebbe dovuto andare a La Maddalena”, ove si sarebbe recato anche il re (18). Successivamente, il 6 settembre lo stesso Ambrosio trasmise a de Courten un promemoria inglese inviato da Castellano, “con l'indicazione delle località sotto controllo angloamericano verso le quali la flotta si doveva dirigere al momento della proclamazione dell'armistizio. Dovevano essere Bona per la flotta situata a La Spezia e Malta per le navi che si trovavano nei porti adriatici o a Taranto. Di fronte alle proteste di de Courten per una decisione tanto grave per la Marina, Ambrosio lo rassicurò ancora una volta dicendo che “il documento doveva considerarsi lettera morta”, perché egli aveva chiesto agli alleati di permettere alla flotta di recarsi alla Maddalena e che “certamente non vi sarebbero state difficoltà” (19).
    In effetti, un promemoria inviato il 6 settembre al generale Castellano perché ne sottoponesse il contenuto agli angloamericani indicava al primo punto: “Nei riguardi della flotta, nelle conversazioni preliminari era stato considerato il trasferimento delle nostre navi da guerra nei porti di Cagliari e La Maddalena. È necessario insistere per questa soluzione, considerando che, data la situazione morale dei nostri equipaggi, vi è la possibilità che la flotta si rifiuti all'ordine di dirigere ai porti avversari” (20); ma questa clausola era inserita nel testo dell'armistizio già sottoscritto tre giorni prima e quindi pienamente accettata. Non solo, ma la richiesta di lasciare le navi in porti italiani, già avanzate da Castellano nei precedenti incontri, era stata sempre respinta (21). È quindi incredibile che Ambrosio potesse veramente supporre che le clausole dell'armistizio già sottoscritte potessero essere radicalmente modificate su un punto così importante.
    De Courten -scrive la Aga Rossi- “si comportò fino alla fine come se dovesse preparare la flotta allo scontro finale con il tradizionale nemico, l'Inghilterra”(22), anzi, non si comportò “come se” dovesse prepararla, ma la preparò effettivamente. In questo non vediamo alcun contrasto con l'informazione che gli era stata data, circa l'esistenza di trattative in corso per un armistizio (mentre gli era stato tenuto nascosto, per contro, che l'armistizio era stato concluso e firmato già da cinque giorni).
    Nel corso di trattative per un armistizio le operazioni belliche continuano; anzi, spesso si intensificano, perché ciascuno dei due avversari cerca di giungere alla sospensione delle ostilità nelle condizioni migliori possibili. Se la Marina italiana avesse inflitto gravi perdite al nemico e soprattutto se avesse distrutto in mare le forze nemiche da sbarco dirette a Salerno -come era possibile, anzi più che probabile da parte di una Marina decisa ad attaccare senza tener conto delle proprie perdite, pronta al supremo sacrificio, qual'era quella italiana l’8 settembre 1943-, indubbiamente le condizioni di un eventuale armistizio avrebbero potuto essere meno svantaggiose per l'Italia.
    E difatti, nella mattinata dell'8 settembre, come risulta dal documento sopra pubblicato, il Capo di Stato Maggiore e ministro della Marina dette ordine alla Squadra da battaglia di prepararsi ad attaccare, anche in cooperazione con l'alleato tedesco, le forze nemiche che stavano sbarcando nel Golfo di Salerno.
    Il ministro e Capo di Stato Maggiore della Marina ebbe notizia dell'avvenuta firma dell'armistizio quasi contemporaneamente all'annuncio ufficiale che ne dette alla radio il comandante in capo nemico ed addirittura dopo che la notizia era stata diramata dall'agenzia giornalistica inglese “Reuter”. Poco prima delle ore 18 dell’8 settembre, fu convocata al Quirinale una riunione, presieduta da Vittorio Emanuele III, cui parteciparono fra gli altri il Capo di Stato Maggiore Generale ed i ministri delle tre Forze Armate. Soltanto in quel momento, Ambrosio comunicò che l'armistizio era stato già firmato sin dal 3 settembre, che Eisenhower lo avrebbe pubblicamente annunciato alle 18.30 (cioè all’incirca contemporaneamente alla riunione in corso in quel momento, tanto che “nel corso stesso della riunione si seppe che il gen. Eisenhower stava facendo alla radio la preannunciata comunicazione”) e che l'agenzia di stampa inglese ne aveva già diramato la notizia (23).
    Secondo la Aga Rossi, in quella riunione al massimo livello, presenti Vittorio Emanuele III, il capo del governo Badoglio, il Capo di Stato Maggiore Generale gen. Ambrosio, il ministro della Real Casa Acquarone, il gen. Puntoni, il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, i tre ministri delle forze armate (gen. Antonio Sorice della Guerra, amm. Raffaele de Courten della Marina, gen. Renato Sandalli dell'Aeronautica) ed il gen. Carboni, sarebbe stata messa in discussione l'accettazione o meno dell’armistizio firmato cinque giorni prima, e sia il sovrano che Badoglio, sarebbero “rimasti incerti fino alla fine”, mentre “la proposta di Carboni di sconfessare l'armistizio e di conseguenza anche Badoglio e di continuare la guerra a fianco dei tedeschi fu appoggiata dalla maggioranza dei presenti” e soltanto alla fine si sarebbe deciso di mantenere l’impegno (24). Stentiamo a crederlo.
    De Courten scrive invece di aver discusso con il capo di Stato Maggiore Generale “l’eventualità di ordinare l'autoaffondamento delle unità della flotta, emanando il prestabilito ordine convenzionale”, ma di aver desistito, dopo aver preso visione di “un foglio allegato al testo dell'armistizio, nel quale era esplicitamente affermato che il trattamento definitivo del quale avrebbe fruito l'Italia sarebbe stato connesso con la lealtà con la quale sarebbero state eseguite le clausole dell'armistizio”.
    Non appena annunciato l'armistizio, alle 19.50 dell'8 settembre fu diramato a tutte le navi in mare, e soprattutto ai sommergibili che operavano nel Mediterraneo, nell'Oceano Atlantico e nell'Oceano Indiano, l’ordine di sospendere le ostilità.
    Citiamo ancora dalla relazione del 12 febbraio 1944 dell'ammiraglio de Courten: “Presi poi contatto telefonico con l'ammiraglio Bergamini, giacché mi pareva urgente ed indispensabile esaminare la situazione morale della Squadra da battaglia, la quale, essendo pronta ad andare a combattere, e quindi portata a quella temperatura che era indispensabile per affrontare una prova suprema, veniva a trovarsi da un momento all'altro nelle condizioni di dover invece praticamente consegnarsi nelle mani del nemico. L'amm. Bergamini, colto di sorpresa sia dalla notizia dell'armistizio sia dalle conseguenze che ne derivavano nei riguardi della flotta, fece presente che lo stato di spirito degli ammiragli e comandanti sottordini, che egli aveva convocato immediatamente, non appena reso noto alla radio l'armistizio, era unanimemente orientato verso l'autoaffondamento delle navi” (25).
    La risposta di de Courten fu che “si chiedeva loro un sacrificio anche più grave, quello di adempiere lealmente e a qualunque costo alle dure condizioni dell'armistizio: questo sacrificio amarissimo avrebbe potuto portare in avvenire grande giovamento al Paese” e prospettò all'ammiraglio Bergamini l'opportunità di trasferire la Squadra da battaglia a La Maddalena, cioè rimanendo sempre in un porto italiano (26).
    De Courten, quindi, non ordinò alla Flotta di ottemperare alle clausole dell’armistizio, cioè di recarsi in un porto nemico. Ciò, secondo la Aga Rossi, “forse per timore di non essere obbedito o perché egli stesso contrario ad una tale decisione”(27), e ci piace pensare che il massimo responsabile della Marina italiana abbia adottato questa decisione per il secondo motivo. 
    Alle 2.30 antimeridiane del 9 settembre, de Courten diramò a tutte le navi ed a tutti i comandi un proclama in chiaro, in cui, dopo aver ricordato i sacrifici e le glorie della Marina in quaranta mesi di guerra, aggiungeva: “È possibile che altri duri doveri vi siano riservati, imponendovi sacrifici morali rispetto ai quali quello del sangue appare secondario” (28).
    Per tutta la mattina del 9 settembre, Supermarina continuò a diramare alle varie unità l'ordine di raggiungere La Maddalena, verso la quale stava dirigendosi sin dalle due antimeridiane la Squadra da battaglia. Soltanto “fra le 13 e le 14 Supermarina, avvertita dell'occupazione di Maddalena da forze tedesche, ordinò alla Forza Navale da battaglia di dirigere per Bona anziché per Maddalena”(29), cioè verso un porto nemico nell’Africa settentrionale. L'ordine precisava “senza consegnarsi (al nemico) nè abbassare bandiera”. Alle 14.15 un ulteriore radiomessaggio diretto a tutte le navi in mare ribadiva: “Non è contemplata cessione navi nè abbassamento bandiera” (30).
    Non è possibile sapere quale sarebbe stata la decisione dell'ammiraglio Bergamini, il quale aveva dichiarato che mai avrebbe portato le navi italiane a Malta, perché poco più tardi, verso le 17, le stesse furono oggetto di un attacco aereo, che fu ritenuto dapprima essere ad opera di aerei inglesi, mentre successivamente si rivelò essere portato da aerei tedeschi. Come è noto, fu colpita ed affondata la nave ammiraglia “Roma”, con la quale cadde anche l'ammiraglio Bergamini.
    A questo punto, occorre sottolineare che le modalità per la resa delle nostre navi prevedevano che esse innalzassero un “pennello” nero e dipingessero grandi dischi neri sulla coperta, quale segnale di accettazione dell'armistizio. La Squadra italiana da battaglia, al comando di Bergamini, non solo non si diresse verso i porti nemici, disattendendo in tal modo la tassativa clausola dell’armistizio, ma non innalzò neppure il pennello nero, né dipinse i dischi neri sulla coperta delle navi (31). Quando subì l'attacco aereo, come già abbiamo detto, la Squadra ritenne che gli attaccanti fossero inglesi, come risulta chiaramente dai telegrammi scambiati con Supermarina.
    Soltanto dopo l'attacco tedesco e la morte di Bergamini, la Squadra adottò pennelli e dischi neri, alle 07.00 del giorno successivo, 10 settembre, per ordine dell'Amm. Oliva, che ne aveva assunto il comando.
    Con l'attacco alla Squadra italiana da battaglia, l’affondamento della corazzata “Roma” e la morte dell'Ammiraglio Bergamini, i tedeschi resero involontariamente un grande servizio agli angloamericani.
    L’ipotesi che la flotta italiana potesse rifiutarsi di raggiungere i posti nemici era tutt'altro che infondata, dato lo spirito combattivo che animava ammiragli, comandanti ed equipaggi di quella che è stata definita “una grande Marina”, quale era in quell'epoca la Marina italiana.
    Un'altra testimonianza riportata dalla Aga Rossi è quella del capitano di fregata Andrea Bianchi, comandante in seconda della corazzata “Andrea Doria”, allora a Taranto, e che si riferisce quindi non alla Squadra a La Spezia, ma alla divisione dislocata a Taranto. Il diario, riletto quarant'anni più tardi, quando il Bianchi era ammiraglio di divisione (c.a.), ed orientato in senso totalmente favorevole alla decisione di andare a Malta, riferisce le reazioni della divisione navale che si trovava nel porto di Taranto, alla quale Supermarina ordinò alle 6.40 del 9 settembre, di recarsi a Malta.
    Già la sera dell’8 settembre il comandante della nave, capitano di vascello Francesco Pesante, appresa la notizia dell'armistizio, aveva riunito il comandante in seconda, il 1° direttore del tiro, capitano di corvetta E. Cinzo, ed il direttore di macchina, ai quali aveva dichiarato: “Mancano ancora ordini. Io però la nave a Malta non la porto in nessun caso. Che ne dite?”. I due annuiscono. Io taccio. Il primo” (cioè il comandante) continua “Studiate le modalità per l'affondamento della nave. Direttive: sbarco tempestivo dei viveri e del vestiario, che sarà bene iniziare subito. Mettere al sicuro la cassa e i documenti più importanti dell'archivio. La maggioranza della gente a terra per tempo con le proprie robe in scaglioni bene ordinati. Lasceremo a bordo il minimo personale indispensabile per portare la nave in acque profonde ove affondarla senza possibilità di recupero. Un rimorchiatore ci segua per raccoglierci”(32).
    Alle nove del mattino del 9 settembre, dopo aver ricevuto l'ordine di trasferire le navi a Malta (ordine impartito, come abbiamo detto, alle 6.40 dello stesso 9 settembre), fu tenuta una riunione dei comandanti sul “Duilio”, la nave da battaglia su cui si trovava il comando della Divisione. Dal “Duilio” il comandante del “Doria” telefonò al suo secondo: “Bianchi, pronto per l'eventualità n. 1 “ (l’ affondamento)... “Ti darò conferma tra poco”. Proteste di Bianchi, favorevole ad eseguire l'ordine di andare a Malta. “Poco dopo arriva a bordo il col. Striano (uno dei capi servizio della Divisione). Mi dice che i comandanti si sono rifiutati di portare le navi a Malta, che lo metteranno per iscritto per scaricare la responsabilità dell'ammiraglio. E affonderanno le navi in alto mare” (33).
    Una volta deciso, invece, di obbedire all’ordine di andare a Malta, non mancarono manifestazioni contrarie di coloro i quali erano di diverso avviso. Bianchi cita, in particolare, il DT, capitano di corvetta Ciuffo, ed il DM, maggiore del Genio navale Ruoppolo. “Eppure sono due uomini che hanno sempre parlato male del fascismo (...). Cercò di convincerli. Inutile” (34). Era dunque così difficile comprendere che tutto quanto accadeva in quel momento non aveva nulla a che fare nè con il fascismo nè con l’ antifascismo?
 
    4) Conclusioni
    Sul tema qui trattato molto è stato scritto, sia dai protagonisti che da studiosi di storia contemporanea. Non abbiamo quindi la pretesa di sostituirci ad essi; ma ci è sembrato interessante riportare alcuni documenti, tratti dal volume che, come ha scritto Renzo de Felice, costituisce “quanto di meglio è oggi disponibile sotto il profilo documentario sulla vicenda armistiziale italiana”. Questi documenti - alcuni dei quali, come abbiamo detto, già noti, altri meno - possono offrire lo spunto ad ulteriori riflessioni. Tanto più interessanti essi ci sembrano, in quanto l'autrice del volume conclude che il trasferimento a Malta di gran parte della flotta (ed è superfluo aggiungere che ci furono anche unità che continuarono a combattere, unità che si autoaffondarono, comandanti che si suicidarono dopo aver posto in salvo il proprio equipaggio) costituì un “risultato soddisfacente” (35).
    I marinai italiani furono unanimi nel rifiutarsi di cedere le navi al nemico e di portarle nei porti nemici. Soltanto l’affermazione che l'esecuzione di questa clausola sarebbe stata determinante per le future sorti della Patria convinse, loro malgrado, coloro i quali in un secondo momento ottemperarono all'ordine ricevuto, ad obbedire all'ordine stesso, impartito con la reiterata affermazione che non sarebbe stata ammainata la bandiera nè le navi sarebbero state cedute al nemico.
    Affermazione, quest'ultima, assolutamente menzognera, in quanto è ben noto come la flotta italiana sia stata poi ripartita fra i vincitori quale bottino di guerra.
    Scrisse quasi a caldo, nell'immediato dopoguerra Attilio Tamaro, nel ricostruire la storia degli anni 1943-45: “... sul mare si compiva l'atto più sciagurato e più determinante della catastrofe provocata dall'armistizio, cioè la resa della flotta: atto d'una immensa tragedia e immane tragedia in se stesso. Sprofondarono non nel loro mare, che le avrebbe gloriosamente inghiottite, ma nella disonorevole disfatta, le belle navi, orgoglio e speranza della Nazione, simbolo e strumento d'ogni più giusta sua idealità, organi stupendi della sua vitalità, della sua difesa e della sua potenza. Esse vennero consegnate agli inglesi, dopo essere state prima trascinate con l'inganno e poi spinte dall'azione tedesca verso i porti del nemico” (36).
    Ma non fu la flotta ad arrendersi: al contrario, la flotta l’8 settembre 1943 era pronta all'ultima battaglia e all'estremo sacrificio ed anche dopo l’annuncio dell’armistizio -come risulta al di là di ogni dubbio dai documenti che abbiamo sopra riportato- rifiutò unanimemente di arrendersi e di consegnare le navi al nemico, decidendo di autoaffondarle; così come, del resto avevano fatto altre Marine in circostanze analoghe. Ai marinai italiani fu chiesto di compiere un sacrificio ancor più grande di quello di morire combattendo per la propria Patria, facendo loro credere che il bene della Patria richiedesse di ottemperare alle clausole dell’armistizio.
    La storia non si fa con i "se"; ma non possiamo fare a meno di chiederci che cosa sarebbe accaduto se la flotta avesse raggiunto porti italiani, come quelli della Sardegna verso cui era diretta. E non possiamo fare a meno di ricordare quanto avvenne a Roma: proprio fra le truppe che più valorosamente si batterono contro i tedeschi il 9 settembre come i granatieri al comando del gen. Solinas, si ebbero poco più tardi il maggior numero di adesioni all'esercito repubblicano (compreso lo stesso gen. Solinas), non appena sul territorio non occupato dal nemico si costituì la Repubblica Sociale Italiana.
    La scomparsa della flotta italiana dal teatro del Mediterraneo modificò radicalmente l'equilibrio marittimo mondiale.
    In conclusione, dai documenti riuniti nel volume di cui abbiamo sopra detto, risulta ancora una volta che:
    1) il tradimento ed il passaggio al nemico furono tradimento non solo nei confronti dell'alleato tedesco, ma -prima ancora e soprattutto- nei confronti dell'Italia e dei soldati italiani di terra, di mare e di cielo;
    2) un armistizio negoziato avrebbe forse portato l'Italia fuori del conflitto: il passaggio al nemico ebbe come conseguenza diretta lo svolgimento di una durissima guerra guerreggiata sul suolo italiano, distruzioni immense, la guerra civile.
    Non era difatti nei piani originari del nemico uno sbarco nell’Italia continentale. Elemento determinante che spinse gli angloamericani all'invasione del continente fu proprio l'inizio delle trattative, sin dai primi di agosto, non per un armistizio, ma per un capovolgimento di fronte (36).
    Si verificò pertanto esattamente l'ipotesi che il Comandante in capo nemico, gen. Eisenhower, aveva enunciato soltanto per escluderla, tanto la considerava assurda. Con l’“armistizio” del settembre 1943, non solo chi lo stipulò venne meno alle leggi dell’onore militare, ma fece sì che la guerra guerreggiata si spostasse sul suolo italiano.
 
La corazzata «Roma» colpita da due bombe teleguidate P.C. 1400x da 1500 Kg, al momento dell'esplosione della Santa Barbara di una delle torri trinate.  Morirono 1266 uomini d'equipaggio, 86 ufficiali, tra cui il com. della nave cap. vascello Adone del Cima, l'amm.  Carlo Bergamini e il suo stato maggiore. 
 
 
 
    NOTE
 
    (1) Lo sbarco angloamericano a Salerno.
    (2) Documento 7.3 della pubblicazione di Elena Aga Rossi che citiamo più avanti, pp. 362-376.
    (3) Ivi, p. 368.
    (4) Elena Aga Rossi, L'inganno reciproco. L'armistizio tra l’Italia e gli angloamericani del settembre 1943, Roma, ll Mulino, 1993, con il patrocinio del Ministero per i Beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i Beni archivistici, 1993, pp. AV-475 (“Pubblicazioni degli Archivi di Stato”, serie “Fonti”, vol. XVI).
    Nel volume, che reca una prefazione di Renzo de Felice in cui l'illustre storico afferma che esso costituisce “quanto di meglio è oggi disponibile sotto il profilo documentario sulla vicenda armistiziale italiana”, i documenti, tutti di grande interesse, occupano le pagine 83-475 e sono preceduti da un ampio studio dell'autrice (pp. 1-82). Anzi, il testo dal titolo “Il punto di vista inglese”, che occupa le pagine 85-236, è in realtà un ulteriore studio dell'autrice stessa, corredata da numerosi documenti di parte britannica.
    (5) E. Aga Rossi, op. cit., p. 41. Cfr. anche p. 46.
    (6) Ivi, p. 19.
    (7) Ibidem.
    (8) Ivi, p. 26. In nota, però, la Aga Rossi cita anche opinioni opposte.
    (9) Il proclama di Badoglio, subito dopo essere stato nominato capo del governo, il 25 luglio 1943, afferma: “La guerra continua. L'Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni”. Il proclama fu largamente diffuso.
    (10) E. Aga Rossi, op. cit., p. 37.
    (11) Ivi, nota 66, e p. 147. Aggiungeva ancora Eisenhower: “Inoltre essi non otterrebbero l’unica cosa alla quale sono interessati, e cioè la pace".
    (12) Ivi, p. 73, nota 162.
    (13) Elio Lodolini, La illegittimità del Governo Badoglio. Storia costituzionale del “quinquennio rivoluzionario” (25 Luglio1943 - 1 gennaio 1948) (tesi di laurea in Diritto costituzionale, discussa nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Roma il 29 novembre 1950), Milano, Gastaldi editore. 1953, pp. 175; ripubblicata senza modifiche in “StoriaVerità”, 1992-1993.
    (14) E. Aga Rossi, op. cit., doc.7.1, p.354.
    (15) Ivi, p 55
    (16) Ivi, p. 55-56.
    (17) Ivi, p. 48.
    (18) Ivi, p. 56.
    (19) Ivi, p. 56.
    (20) Documento 6.1. del 6 settembre 1943, p. 337, ivi.
    (21) Ivi, p. 56.
    (22) Ibidem.
    (23) Relazione de Courten del 12 febbraio 1944, ivi, p. 369.
    (24) E. Aga Rossi, op cit., p 61: “Vi sono diverse versioni sul contenuto degli interventi, ma sostanzialmente tutte concordano sul fatto che nonostante le minacce di Eisenhower, la proposta di Carboni di sconfessare l’armistizio e di conseguenza anche Badoglio e di continuare la guerra a fianco dei tedeschi fu appoggiata dalla maggioranza di presenti”.
    (25) Ivi, p. 370.
    (26) Ibidem.
    (27) Ivi, p. 65.
    (28) Crediamo valga la pena di riportare integralmente il proclama di de Courten:
    “Marinai d’Italia:
    Durante quaranta mesi di guerra avete tenuto testa alla più potente Marina del mondo, compiendo eroismi che rimarranno scritti a lettere d'oro nella nostra storia e affrontando sacrifici di sangue che vi hanno meritato l'ammirazione della Patria e il rispetto del nemico. Avreste meritato di poter compiere il vostro dovere fino all'ultimo combattendo ad armi pari le forze navali nemiche. Il Destino ha voluto diversamente: le gravi condizioni materiali nelle quali versa la Patria ci costringono a deporre le armi. È possibile che altri duri doveri vi siano riservati imponendovi sacrifici morali rispetto ai quali quello del sangue appare secondario: occorre che voi dimostriate in questi momenti che la saldezza del vostro animo è pari al vostro eroismo e che nulla vi sembra insopportabile quando i destini della Patria sono in gioco. Sono certo che in ogni circostanza saprete essere all'altezza delle vostre tradizioni nell'assolvimento dei vostri doveri. Potete dunque guardare fieramente negli occhi gli avversari di quaranta mesi di lotta, perché il vostro passato di guerra ve ne dà pieno diritto”.
    (29) Relazione de Courten. ivi, p. 374.
    (30) I radiomessaggi dello Stato Maggiore della Marina (Supermarina) dall’8 al 10 settembre 1943 costituiscono il doc. 7.2, pp. 355-361, del citato volume, tratti dall'Archivio Storico della Marina, memoriale de Courten, cart. 1, fasc. 41. Anche dopo che l'amm. de Courten ebbe lasciato Roma con il Sovrano e Badoglio, alle 6.30 del 9 settembre, i radiomessaggi furono diramati da Roma a sua firma.
    (31) Giorgio Giorgerini. Da Matapan al Golfo Persico. La Marina militare italiana dal Fascismo alla Repubblica. Milano, Mursia, 1989, definisce questo fatto “un piccolo dettaglio” .
    (32) E. Aga Rossi, op. cit.. Documento 7.4. Memoria del capitano di fregata Giuseppe Bianchi sugli avvenimenti dei giorni 8-12 settembre 1943, ivi, pp.377-394; il passo qui sopra riportato è a p. 378.
    Particolare dell'attacco: nonostante l'accostata, la “Roma” è colpita da una seconda bomba.
    Il diario prosegue indicando come, una volta giunto l'ordine di andare a Malta, vi fossero tentativi di opporvisi da parte dell’equipaggio  tanto da dover far armare elementi “sicuri” per impedire ogni resistenza da parte di chi non voleva consegnare la nave al nemico.
    Il documento si trova nell'archivio della famiglia Bianchi-Moro.
    (33) Memoria Bianchi, p. 379.
    (34) Memoria Bianchi, p. 381.
    (35) “Si è sempre scritto che la flotta eseguì immediatamente le clausole dell'armistizio, dirigendosi nei porti stabiliti. In realtà, come abbiamo visto, la Marina era delle tre armi forse la meno preparata a ricevere l'ordine così sorprendente e improvviso di consegnarsi al nemico. Forse per timore di non essere obbedito o perché egli stesso contrario ad una tale decisione, de Courten decise di non chiedere immediatamente alla flotta l'attuazione dei termini d'armistizio, come la successione dei radiomessaggi inviati tra la sera dell'8 e tutta la giornata del 9 fa chiaramente trasparire. Innanzi tutto i testi di questi radiomessaggi mostrano che subito dopo l'annuncio dell'armistizio Supermarina ordinò di cessare le ostilità e di dirigersi ai porti di destinazione. Soltanto al Comando della V Divisione, che si trovava a Taranto, venne ordinato di dirigersi a Malta. Alla Squadra navale del Tirreno fu chiesto prima di eseguire gli ordini del “Promemoria n. 1" (il quale stabiliva che le navi raggiungessero “i porti della Sardegna, della Corsica, dell'Elba, oppure di Sebenico e Cattaro”: ivi, p. 343) e poi di concentrarsi sull’isola della Maddalena in Sardegna, dove avrebbe dovuto ricevere ulteriore ordini. Quando arrivò la notizia che La Maddalena era stata occupata dai tedeschi, alla Squadra venne ordinato di cambiare rotta e di dirigersi su Bona. Mentre stavano rettificando la rotta vi fu l’attacco tedesco, che causò l’affondamento del Roma e la perdita di quasi tutto l’equipaggio, incluso il comandante Bergamini. Soltanto allora la flotta si diresse verso Malta. Fu anche grazie al fatto che il Ministero della Marina continuò a mantenere i contatti con le navi e ad impartire gli ordini, ricordando fra l’altro che secondo l’armistizio la flotta avrebbe continuato a battere bandiera italiana e non sarebbe stata smobilitata, che nella maggioranza dei casi venne mantenuta la disciplina. La flotta non andò compatta a Malta, e molte navi furono perse, ma si evitò che le unità si autoaffondassero, salvo alcuni casi. Qualche unità si diresse alle Baleari e quasi tutta la marina mercantile rimase nei porti, ma data la situazione il risultato fu soddisfacente” (ivi, pp. 65-66).
    (36) Attilio Tamaro. Due anni di storia, 1943-45, vol. I, Roma, Tosi editore, 1948, p. 455.
    (37) Nei piani originari degli angloamericani era prevista soltanto l'occupazione della Sicilia, per garantirsi il dominio del Mediterraneo. La conquista della Sicilia, per lo meno nella parte occidentale, fu largamente facilitata dalla mafia che, completamente distrutta dal fascismo, era risorta dalle sue ceneri ad opera dei mafiosi americani tratti dalle galere degli Stati Uniti ed infiltrati in Sicilia per riallacciare antiche connivenze ed assassinare alle spalle gli ufficiali italiani preposti ai punti chiave della difesa (ed i mafiosi, messi ai posti di comando dal nemico dopo l'occupazione, vi si installarono solidamente).
    Anche la Aga Rossi afferma che il primo obiettivo degli angloamericani era stato quello di eliminare l'Italia dal conflitto, ma “L'offerta da parte italiana di una collaborazione militare aggiunse al primo obiettivo un secondo più ambizioso, quello di un ritiro dei tedeschi e della liberazione dell'Italia in tempi brevi” (E. Aga Rossi, op. cit., pp. 73-74), dove, ovviamente per “liberazione” deve intendersi, secondo la terminologia attuale, l’occupazione nemica di tutto il territorio nazionale.
 
 
STORIA VERITA’ N. 14 Marzo-Aprile 1994  (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

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